Dopo una pigra estate di accertamenti da parte dei RIS di Parma sui materiali rinvenuti nei luoghi dei fatti contestati, l’indagine che vedeva 6 compagni/e coinvolte ha preso un nuovo slancio. Le perquisizioni avvenute a metà novembre a carico di 19 persone (due in Trentino, una nel bergamasco e le restanti a Bologna) ci rendono noto come il bacino di accusati/e si sia allargato. La presunta associazione con finalità di eversione dell’ordine democratico è ora a carico di 11 persone, cui ne vanno aggiunte 8, considerate di fatto alla stregua di pedine, a cui sono addossati alcuni dei fatti specifici.
Tutte le azioni – e più in generale la finalità della presunta associazione – avrebbero come movente la solidarietà ad Alfredo, la lotta al 41bis e al carcere in generale e, nel caso di alcuni ripetitori incendiati, l’opposizione alla partecipazione dell’Italia alla guerra in Ucraina. Questi fatti ci danno l’opportunità di spendere qualche parola di carattere generale su quello che sta accadendo a noi e ad altri compagni/e in questo paese.
L’azione repressiva che ci coinvolge va ovviamente interpretata nel contesto più ampio della stagione anti-anarchica che sta seguendo la campagna di lotta contro il 41bis e per la libertà di Alfredo.
Ci pare chiaro il presupposto da cui partono le procure di tutta Italia e i ROS.
Si tratta dello stesso sillogismo fatto proprio dal ministro Nordio, e che sta tenendo Alfredo al 41bis: la lotta anarchica porta ad organizzarsi senza scrupolo di legge, l’assenza di legge è violenza, dunque l’anarchismo è violenza e criminalità finalizzata a ricattare lo Stato.
Muovendo da questo assunto, la strategia della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo che sta dietro l’azione degli sgherri dell’Arma sembra articolarsi su due fronti.
Da una parte la proliferazione di operazioni di piccola entità calate sulle specificità locali, ma con un impianto accusatorio simile. Il fine è che in questa gran massa ne scappi fuori qualche precedente utile per la futura repressione a tappeto di ogni manifestazione dell’attività anarchica.
Dall’altra, sebbene non si tratti di una novità, ci pare aver subìto un’accelerata in una sorta di “banalizzazione” del reato di terrorismo. Passateci il termine, lo usiamo in mancanza di altro, lungi da noi affermare che ci sia una corretta applicazione del reato in questione e dichiararci vittime di un’aberrazione dello stato di diritto. Quello che vogliamo dire è che ci troviamo di fronte ad un’applicazione su vasta scala del reato in questione, e per altro non solo ai danni dell’azione anarchica, volta ad aggravare atti di limitata gravità penale (reati di opinione, manifestazioni non autorizzate, danneggiamenti, imbrattamenti).
UN TERRENO DA TESTARE
Azioni repressive simili sono avvenute in tutta Italia. Ognuna con le sue specificità e con l’obiettivo di colpire specifici gruppi di compagne/i, ma tutte accomunate da un rinnovato 270 bis. Rinnovato, ahinoi, sulla base della sentenza Scripta Manent, di cui nelle carte a noi presentate troviamo un vero e proprio copia-incolla. Un insieme di anarchici/che in lotta diventerebbe di necessità “un’associazione di stampo anarco-insurrezionalista che si propone il compimento di atti di violenza con finalità di eversione dell’ordine democratico, strutturata in modo non gerarchico e spontaneista secondo il patto di ‘mutuo appoggio’ ed attraverso la ‘solidarietà rivoluzionaria’ (…) con l’accordo sulla scelta dell’azione diretta compiuta mediante l’uso di ogni mezzo”. A ciò è bene aggiungere come il codice penale italiano detti che “sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che (…) sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto”. Nel caso di questa inchiesta non si parla nemmeno di “poteri pubblici” ma delle politiche delle multinazionali. Si legge infatti nelle carte che l’associazione in questione si prefiggerebbe l’obiettivo di compiere azioni dirette e/o di sabotaggio, tutte connotate da violenza politica, aventi come fine ultimo la cessazione delle politiche perseguite dalle grandi multinazionali italiane anche in ragione del recente conflitto russo-ucraino, la liberazione da tutte le carceri e la liberazione del militante Cospito Alfredo dal regime detentivo previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
Sarebbe interessante conoscere la genesi dell’indagine a cui siamo sottoposte/i. Assistiamo infatti, per certi aspetti, a un copione inedito: nessuna pomposa operazione da prima pagina con misure cautelari fondate su roboanti reati associativi, che poi si cerca di validare in corso d’opera.
Invece, dopo un anno e mezzo di indagini si richiedono analisi di laboratorio che informano 6 compagne/i, (già oggetto, negli ultimi tre anni, chi di operazioni analoghe con tanto di misure cautelari a seguito, chi di condanne definitive e chi di richieste di sorveglianza speciale) di essere sottoposti ad un’indagine per 270bis con diversi reati specifici (tra cui un 280bis); dopo altri 5 mesi seguono un ampliamento della rosa delle persone indagate e 19 perquisizioni. Ci pare verosimile che a questo punto gli inquirenti vogliano arrivare a richiedere delle misure cautelari fondate su qualcosa di ben architettato, e chissà, magari trovare finalmente il modo di liberarsi per un pò di questi sei personaggi scomodi”. Interpretare questo nuovo copione ci risulta difficile; possiamo tuttavia ipotizzare che, almeno sul piano locale, la memoria dell’operazione Ritrovo del 2020 possa avere indotto la controparte ad adottare un approccio più cauto, almeno sin qui.
SULLA BANALIZZAZIONE DEL REATO DI TERRORISMO
Merita notare che in questa indagine lievi reati di piazza contestati alle 8 persone non incluse nell’associazione diventino però, grazie all’aggravante dell’eversione dell’ordine democratico, un pretesto per avviare intercettazioni, richiedere il prelievo di DNA, avanzare possibili richieste cautelari.
Capiremo col tempo se un giudice si prenderà effettivamente la briga di firmare un’ordinanza per il prelievo coatto del DNA, per tutte le persone coinvolte nelle perquisizioni, indipendentemente dall’entità dei fatti di reato contestati.
Pare che sul movimento anarchico si stia tentando un intervento simile a quello impiegato nel contrasto al cosiddetto “islamismo jihadista” che, seppur distante anni luce dall’idea anarchica, è stato un fenomeno sulla cui gestione lo Stato ha dovuto scervellarsi producendo strumenti giuridici e impianti accusatori che oggi si prova a impiegare nella repressione anti-anarchica. Sebbene la tattica e gli strumenti impiegati differiscano, la strategia è la medesima: applicare una sanzione spropositata per gesti di incisività modesta. Visitare il sito sbagliato, frequentare la piazza sbagliata, sventolare la bandiera sbagliata, urlare lo slogan sbagliato sono il pretesto per trasformare qualcosa che un tempo avremmo concepito come semplice dissenso, in terrorismo. Così facendo anche gesti banali diventano impraticabili, figurarsi poi cosa può diventare un’azione un po’ più decisa. Su certi pensieri e pratiche cala una pesante cappa di paura, e il terrore che rimane fa tabula rasa di ogni pensiero sovversivo e radicale.
Il recente pacchetto sicurezza varato dal governo sulla scia dei DL Cutro e Caivano, la repressione delle lotte del sindacalismo di base e dei movimenti ambientalisti, la repressione contro i “no vax”, così come la recente repressione anti-anarchica, stanno tutte assieme nel clima di attuale irrigidimento securitario.
Perché lo Stato stia agendo così è una domanda che merita porsi. Esiste un governo che necessita di nemici e emergenze costruite ad arte, di un fronte interno insomma da combattere per deviare l’attenzione dal fatto che il vento di cambiamento che da anni la destra ha promesso all’elettorato, è evidente, sarà men che un alito, e che le condizioni di vita andranno irrimediabilmente peggiorando. Gente insomma cui addossare i mali di un’Italia in declino. Ed esiste poi uno Stato che, ci pare, ha almeno due orizzonti che ne muovono l’azione: la possibilità di una guerra in cui sarà necessario in un prossimo futuro dover intervenire direttamente, e la necessità di una riconversione energetica. A fronte di ciò è necessario perseguire non tanto la pace sociale, che è traguardo ormai utopico per chi ci governa, ma una società accettabilmente pacificata, dove gli inevitabili conflitti risultino gestibili e bastonabili prima che deraglino.
Se da una parte è sempre stato proprio dello Stato italiano negli ultimi decenni quello di abbassare gradualmente, o per piccoli balzi, il livello del conflitto ed impegnarsi in una repressione dal carattere costante e preventivo, ci pare che questa ampia diffusione repressiva sia sintomo di un’altrettanto diffusa paura, fra chi ci governa, della possibilità che situazioni difficilmente gestibili e pericolose si possano improvvisamente verificare. In questo senso le rivolte nelle carceri del 2020 sono state davvero un inedito e possibile avviso di quello che significa perdere il controllo della situazione. Cose simili è imperativo che non succedano, si stanno ripetendo i governanti.
Nella città di Bologna la lotta in solidarietà con Alfredo si è espressa vivace, con azioni diurne, notturne, azioni simboliche, momenti di piazza, iniziative -va pure ricordato- portate avanti non solo da anarchiche/ci. Non certo una situazione che deraglia, ma sicuramente l’espressione di un conflitto vivo, estesosi anche fuori dai margini dell’anarchismo, e quindi fastidioso. Restringere ciò all’azione premeditata di un gruppo di 11 teste calde anarchiche ci pare quantomeno eccessivo. I fatti specifici su cui si fonda questa indagine, lo ripetiamo sono cinque, ovvero: il tentato danneggiamento di alcuni mezzi della MARR, il danneggiamento di alcuni ripetitori, l’interruzione di una messa, l’occupazione di una gru e il blocco di una via con dei cassonetti incendiati; su di essi non ha senso entrare nel merito, se non per dire che sono gesti che riteniamo giusti e assolutamente comprensibili all’interno del clima di lotta in cui si sono espressi. Ci sentiamo semmai di discostarci dall’ennesima trovata associativa della procura di Bologna, proprio perché a livello politico ci addossa la responsabilità di una lotta di cui siamo stati/e partecipanti fra tanti/e; è una responsabilità che, a prescindere dalle implicazioni penali, moralmente non ci sentiamo di avere, non sarebbe giusto nei confronti di tutte quelle persone che hanno lottato per la libertà del nostro compagno. Una libertà che continuiamo a tenere nel cuore.
Alcunx indigatx
Formato stampabile (pdf): NOTE A MARGINE